Lo ammetto. Sono un’inguaribile
ottimista.
Nasco così. Con la passione per la
vita.
Mi piacciono gli attimi da assaporare come rosse ciliegie, i dettagli
delle relazioni, gli angoli dei volti.
Ho il gusto della profondità e della
superficie. Mi piace la materia e lo spirito che in essa si rivela e cela.
Amo l’aroma dei peperoni che
sfrigolano in padella d’estate e l’odore che il mio paese ha nelle sere
d’inverno, quel misto di umidità di pino e legna arsa nei cammini.
Amo l’eccitante inizio di ogni
primavera, con quella voglia che mette ai piedi di correre nudi in tutte le
direzioni, e i colori caldi dei miei alberi d’autunno, il giro di danza delle
foglie e il motivetto che canto a mio figlio da quando è nato:
‘Crescono le foglie quando è primavera e
cantano e danzano e parlano con me.
Ridono
le foglie al sole dell’estate e cantano e danzano e parlano con me.
Cadono
le foglie quando vien l’autunno e cantano e danzano e parlano con me.
Dormono
le foglie quando fuori è inverno e cantano e danzano e parlano con me’.
Ma non è stato sempre così.
Anch’io ho avuto ‘quei momenti’.
Quelli in cui ‘ti si chiudono gli
occhi ancora’ e ti senti una piccola stella senza cielo… la citazione è
inutile!
Per esempio al liceo.
Il mio super prof di religione, Pino,
(l’unico che abbia mai meritato il titolo di professore di religione in tutta
la storia dell’insegnamento della religione della mia vita!) ci fece fare un
test. Ero all’inizio del primo anno.
Ci chiese quali fossero i nostri sogni
ed io risposi, con una desolazione che avrebbe fatto impallidire Leopardi e
farlo considerare ai più un uomo divertente, che non avevo sogni perché tanto i sogni non si avverano mai. Punto.
Che tenerezza pensare ora a quella
ragazzina!
Poi qualcosa è cambiato.
Ho ritrovato quel che avevo perso
dimenticando il giardino delle fate.
Ma ve lo racconto un altro giorno!
1. Il giardino delle fate
1. Il giardino delle fate
Sono una selvatica.
Mia madre lo dice da sempre. E per
sempre lo dirà perché è vero.
Quando insegnavo mi sedevo sulla
cattedra. Mai dietro.
Non ho mai considerato le persone per
i ruoli che ricoprono (e ciò mi ha procurato non pochi casini relazionali!).
Mi piace il verde. E dire ‘Oh, che meraviglia!’ pure – come direbbe
mia zia – se caca un ciuccio!
Quando ero, anagraficamente, una
bambina trascorrevo tantissimo tempo all’aperto. - E, per intenderci cara
mamma, se sono quel che sono la colpa è tua e di papà che mi avete dato la
grazia di crescere nella terra, tra i sassi (ah, colleziono pietre da sempre) e
sotto gli alberi -.
Dicevo, l’infanzia è stata libera e
selvatica. Proprio in senso fisico, materiale. Andavo col ritmo delle stagioni.
Giocavo con la mia Barbie sotto gli
alberi e le facevo fare il bagno nei bidoni pieni d’acqua che servivano a papà
per costruire, la sera, dopo il suo lavoro, la nostra grande e bella casa.
Pasticciavo terra ed erba per
preparare ottimi intingoli alle bambole e mi prendevo cura di loro sull’erba
del prato dietro casa. Ero già strega!
Dettagli che hanno fatto la mia
storia.
C’erano due fichi, bellissimi, uno dai
frutti bianchi e l’altro dai frutti neri (la tolleranza odierna mi deriverà da
questo?) e un ciliegio maestoso.
Sotto quel ciliegio ho una foto con
mia madre: bellissime entrambe.
E poi c’era lui.
Era a poche decine di metri da casa.
Uno spiazzo erboso con querce a
custodia tutt’intorno e piccoli arbusti.
Era il mio giardino delle fate.
Andavo lì per parlare. E parlavo con
fate, gnomi, elfi e altri esseri fantastici che popolavano i miei giorni.
Parlavo con loro e sentivo l’eco delle loro parole nel fruscio delle fronde,
nel sibilio dell’erba.
Era incantevole! Ero incantevole.
E’ in lui, quel luogo delizioso e semplice che ho cominciato il mio
dialogo con l’invisibile.
L’educazione più essenziale della mia
vita l’ho ricevuta lì.
Poi è cominciata quella fase della
vita in cui la scuola ti da razionalità e ti toglie fantasia.
Direte, ma no, la scuola non è così!
La scuola ex-duce, trae da noi il
tesoro che è già dentro e ci insegna ad esserne consapevoli! … lo dite davvero?
Se lo dite con cognizione di causa, beh, beati voi. Vorrà dire che la mia scuola non è stata così.
Se lo dite come insegnanti… vorrei un
giorno foste gli insegnanti di mio figlio!
Cosa ho perso in quegli anni?
Un po’ di bellezza e incanto. A poco a
poco.
Pare che sia così per tutti e forse si
deve passare al crogiuolo di questa terra di mezzo, per riprendere poi, il
viaggio verso la parte di sé originaria, quella del bambino capace di vedere
l’invisibile.
E infatti, per me, è andata così.
Un giorno, non più bambina
anagraficamente, sono tornata da lui,
il mio luogo e con mia grande sorpresa ho trovato qualcuno ad attendermi.
Ma questa è già un’altra storia…
2. Walnut, il cambiamento
17. Sua maestà, il re del fico d’india
C’è stato un tempo in cui tutto ciò che desideravo era essere sepolta nell’oblio
2. Walnut, il cambiamento
Sono attenta. Ecco un’altra verità su me.
A questo, in realtà, mi sono
ampiamente formata, sebbene partissi da una buona base di curiosità.
C’ho lavorato per anni. Anni fatti di
mesi, settimane, giorni, ore, minuti, secondi.
Mi piace collezionare dettagli,
istantanee di vita.
Potrei dirmi una reporter di attimi.
Fotografo, serbo, nell’inventario intimo, le piccole cose che sanno cambiarti
una giornata ed infine anche la vita.
E’ per questo che amo scrivere, credo,
per custodire questa vita in essenza e
non perderla.
E questo è un album di piccole cose. Di quelle che ti colgono spesso con discrezione e lasciano poi un’impronta per sempre. Di quelle che ti si depositano dentro e fanno di TE quello che SEI.
E questo è un album di piccole cose. Di quelle che ti colgono spesso con discrezione e lasciano poi un’impronta per sempre. Di quelle che ti si depositano dentro e fanno di TE quello che SEI.
Nulla passa e basta.
Resta tutto, anche quando ne perdiamo
la memoria e tutto fa di me - e di te
-quello che hai sempre sognato di essere o quello che non avresti mai pensato
di essere.
Tutti possono essere collezionisti di
dettagli. Tutti possono custodire piccole cose capaci di cambiare il corso
degli eventi.
Tutti possiamo lasciarci cambiare la vita, in qualunque attimo.
Che non arriva per caso. Mai.
E quel giorno, quando sono tornata
nella piccola radura, era il tempo di un dettaglio niente male!
Avevo paura a restare lì da sola. Per
questo poi non ci sono più tornata.
Ogni rumore era una minaccia, non più un incontro.
Ogni rumore era una minaccia, non più un incontro.
Gli animali, soprattutto, mi
spaventavano.
Ed è grazie ad un animale che ci sono
tornata. Timido, il mio cane (che poi ho scoperto essere una femmina il giorno
che ha avuto Cico… che poi ho scoperto essere anche lui una Cica!...non c’ho
preso mai, eh?!).
Era un essere così docile. Talmente la
vita lo aveva bastonato, e forse anche qualcun altro, che non si è lasciato
accarezzare per giorni.
L’ho incontrato sulla strada di casa.
Aveva uno sguardo che elemosinava attenzione, cura, amorevolezza. Ci siamo
incontrati per diverse sere. Stava un po’ con me, a deditissima distanza, e poi
fuggiva.
Fino a quando una sera, dopo lunghi
sguardi d’intesa, Timido (ormai aveva un nome) si è lasciato accarezzare ed è
diventato ospite fisso da noi.
Ora mi rendo conto, mentre scrivo, che
è stato l’animale più speciale della mia vita. Ancora ricordo, e penso lo farò
per sempre, i suoi occhi profondi.
E’ insieme al mio cane che ho avuto il
coraggio di tornare nel giardino delle fate e restare lì a scoprire quel che
avevo perso. C’era lui a guardia e tutto andava bene.
Nel mezzo del giardino c’era un
albero.
Non lo ricordavo affatto! Era un noce.
Alla base del suo tronco una
concavità, una sorta di utero esterno.
Cominciai a familiarizzare con
quell’albero.
Mi sedevo ai suoi piedi e parlavo con
Dio.
In realtà, è sempre stato Lui
l’interlocutore segreto di quel giardino, ma allora, nell’animismo
dell’infanzia, Quello era senza nome.
Era esperienza, non concetto, era presenza, non dogma.
Specialmente per me.
Le catechesi dell’infanzia non
m’avevano convinta ad andare a Messa per precetto e neanche le mie amiche che
citofonavano puntuali la domenica mattina.
La prima comunione, quella no, è stata
un salto nella compagnia.
Ho scritto quel giorno, sul diario che
una parente mi ha regalato, Da oggi non
sono più sola. Super accidenti che affermazione per una bimba!
Comunque sia, fuori, tutto è rimasto
com’era. Senza nessun desiderio di celebrazioni comunitarie. Avevo la mia
liturgia naturale. E questo è tutto per un bambino. Specie se la proposta non è
una Presenza ma parole, parole, parole.
Insomma, alla fine su quell’albero ci
sono salita.
Il mio albero dei cambiamenti.
Nella natura c’è davvero una risposta
silenziosa. Se sappiamo ascoltarla.
I bambini lo sanno.
Ma anche questo ve lo racconterò un
altro giorno.
3. Baci, ovunque sparsi
3. Baci, ovunque sparsi
Come sarà il domani lo decide anche la
notte.
Certe notti insonni si vedono nei
dettagli di un volto stanco o nelle brusche impennate d’umore mentre un cliente
si fa più esigente del solito. E allora, siccome sono educata, resto in
silenzio, fino a quando il cliente non ha terminato il suo monologo interiore e
compreso da sé che per la luna dipinta di blu non siamo ancora attrezzati.
E poi ci sono quei risvegli.
Quelli in cui ti stropicci fra le
lenzuola con un sorriso ebete e gli occhi trasognanti e ti volti a guardare il
tuo uomo come fosse l’ultimo e unico essere vivente rimasto sulla terra. Quelli
in cui prima sospiri e poi torni alla respirazione standard e ti alzi cantando La vie en rose.
Sono i mattini figli delle notti
d’amore. Quelle in cui il mondo può anche cambiare rotazione e impennare verso
Marte che tu te ne freghi assolutamente dell’esistenza di un universo la fuori.
Quelle che, dopo una giornata di
lavoro, sei fresca come una rosa solo perché lui ti ha inviato un sms con su
scritto Ho fame. Non cucinare!
E tu ti sei messa a sfogliare immediatamente
l’enciclopedia universale dei desideri per offrire una cena indimenticabile.
Ecco, questi dettagli della notte,
planano sui minuti e sulle ore del giorno seguente come una frescura nel sole
d’agosto, come un focolare scoppiettante nelle sere fredde d’inverno.
Colleziono i dettagli di certe notti
per sfogliarli nei tempi di magra, quando un’ora sbiadisce un po’ nel tran tran
quotidiano ed ho bisogno di una sveglia.
Per esempio, se un volto arcigno tenta
di rovinare una porzioncina succulenta della mia giornata ecco che lancio la
carta vincente del suo volto illuminato dalle candele: nessun volto regge il
confronto.
E se un’ascella particolarmente
commossa mi si fa accanto e mi mette sotto sopra le budella, ecco che sfodero
l’arma del dettaglio olfattivo: il suo odore caldo, come un sacchetto di spezie
profumate, poste segretamente sul suo petto.
Le notti d’amore con Dio, poi, hanno
sempre lasciato la stessa impronta di sorriso ebete, canzoni mormorate al
mattino e uno sguardo puntato alla luce dentro e ai Suoi baci, ovunque sparsi,
nell’incanto della creazione.
Sono le notti d’amore con Dio ad aver
dato l’intensità a quelle col mio uomo.
Chiarore di stelle o lume di candela,
quelle notti, i dettagli sottili di certi incontri, segnano più di tutto il
passo al giorno che sarà. Alla vita che è.
L’amore condiviso con Dio. L’amore
condiviso con un uomo.
Lo stesso Eros, che trapassa il mondo
di smagliante bellezza, la stessa freccia infuocata, capace di compiere tutte
le ore dei nostri giorni.
Peccato che all’Eros, spesso, si dia
nome di sesso, termine letteralmente usato solo per gli animali e poi passato
nel nostro gergo a tradurre l’impoverimento dell’amore! Sì, peccato, ovvero ‘mancato bersaglio’ (questo vuol dire il
termine peccato in ebraico) perché è l’Eros – che lo si viva nella relazione o
nella castità – il luogo più alto della manifestazione dell’Essere. Perché Eros
è Dio che si manifesta nell’ardore di vita che siamo, nella crescita dei semi dalla terra, nella pioggia riversata dai
cieli sulla terra.
Un dettaglio che fa un oceano di
differenza.
E voi, avete mai collezionato certe
notti?
Ligabue sì, è chiaro.
4. Ti a…emoticon!
4. Ti a…emoticon!
Abbiamo
accolto una vita… ma dopo solo pochi giorni è volata via.
Siamo
grati della gioia che ci ha dato. Seppur brevemente.
Ancor
più crediamo nella bellezza d’ogni istante che va goduto, gustato, senza
rimandi.
Risposta: Dito alzato (formato emoticon).
Meno male che almeno il dito era il
pollice e non il medio!
Durante il travaglio, durato trentasei
ore e finito con un cesareo in anestesia totale, un altro amico ha continuato
per tutto il tempo ad inviarci smile.
Lettere e messaggi hanno spesso come risposta delle emoticons.
Ok, direte, hai scelto male gli amici!
Tuttavia, ad una meno semplicistica
valutazione, appare come questi piccoli dettagli possano corroborare la mia
teoria della ‘fuga dalle
relazioni’.
Il linguaggio è arte finissima di
umanizzazione. Manifesta ciò che, a differenza degli altri animali, ci
identifica: il cuore, la mente, lo spirito, in esso sono espressi, palesati.
La nostra è una carne verbificata ed è questo il grande mistero di ciò che siamo.
Ora, se il linguaggio si riduce
neanche più a ideogrammi carichi di senso (come quelli ebraici o giapponesi,
per esempio), ma ad EMOTICONS, qualcosa vorrà dire sullo stato dell’arte della
nostra condizione umana.
Cosa troveranno di noi gli archeologi
del futuro?
Ma il punto non è neanche questo: è
l’Oggi. Cosa costruiscono nell’ORA, il luogo della vita, le emoticons?
E’ saltato il confronto,
l’argomentazione, l’ampliamento dei concetti che allarga i sentimenti.
Gli uomini e le donne in fuga dalle
relazioni sono i più esperti emoticonisti,
o almeno questo è quanto ho potuto sperimentare nella mia vita (il mio è solo
un punto di vista e, come diceva il mio docente di teologia teoretica: un punto di vista non è che la vista di un
punto!).
Una emoticon mette fine al mondo che
abbiamo spalancato attraverso il linguaggio in un click. Senza sforzo. Senza
spiegazioni.
Con un’aridità da far sfigurare il
deserto.
Faccio salve le intenzioni,
figuratevi!, ma se siete emoticonisti
incalliti e non avete consapevolezza di ciò la vostra risposta in un click può
significare per voi prima che per l’altro, ACHTUNG!!!, forse dovete porvi delle
domande.
Una emoticon sotto una foto in Facebook
ci sta, fa parte del gioco veloce di questo tipo di comunicazione, dice ‘ci
sono’ anche nel vortice delle occupazioni quotidiane. E’ simpatico!
Ma al cuore che si apre, all’animo che
si svela, al dolore che si condivide, alla gioia che si distribuisce attraverso
le parole, dobbiamo molto più di uno smile! O
no?
Se proprio non vogliamo approfondire
relazioni o continuare a condividere un percorso, bene: D I C I A M O L O !
Il dono della parola ci fa umani.
Le emoticons, al momento sbagliato,
dicono solo che siamo dei fuggiaschi.
Diciamoci l’amore, diciamoci la vita,
diciamoci anche la voglia di fuga!
Ti
amo,
è molto di più di smile.
Perchè l'amore al tempo delle emoticos è sempre l'amore.
Accanto
alla finestra, dove le erbe aromatiche in bella vista fanno sfoggio di sé, c’è
una stampa incorniciata: è un quadro di Chagall.
Ci
sono due amanti, sospesi, come in una sovra-dimensione, in mezzo alle faccende
quotidiane, in una cucina, davanti ad una torta.
Lei
è avvolta da lui in un bacio che la sorprende, morbido.
Lei
è tutta la sua gioia. Lui è tutta la sua festa.
Quando
sono entrata per la prima volta nella cucina di Nina questo quadro è stata la
prima cosa che ho notato.
La
seconda è stata l’odore.
Nella
sua cucina cuoceva sempre qualcosa in pentola. Sempre. Qualcosa.
Gli
aromi del cibo si mescolavano con le spezie, le tinture madri, le essenze, con
la carta dei libri sparsi ovunque, con il suo odore e tutto, tutto quanto insieme,
era lei.
Nina
era una donna-strega, capace di mescolare nel suo grembo ogni diversità, per
questo molti l’hanno temuta: tremavano di fronte al suo sguardo che non si
scandalizzava di nulla, così gratuitamente e sfacciatamente accogliente.
Ci
siamo incontrate in un cimitero, anni fa.
Gli alberi dei cimiteri hanno
una voce diversa dagli altri, il sole si posa sui loro rami come un ospite
discreto e anche il vento pare chieda “permesso” quando vuol soffiare tra le
piccole cappelle così difformi le une dalle altre.
Tutto è pacato. Silenziosamente
imperfetto.
Mi sono sempre rifugiata in
questa ombra di paese quando la solitudine mi strappava le carni e quando la
nostalgia di Dio si faceva insostenibile. Restare in mezzo a quella quiete mi
ha dato sempre pace: toglie il fiato a pensieri inutili…
Quel pomeriggio cercavo l’olio
del silenzio sulle mie ferite e Nina era lì. Annusava i cipressi e sorrideva,
di un sorriso che partiva molto oltre le sue labbra rosse.
Ricordo
bene ogni cosa: mi ero fermata come al solito accanto a quello spiazzo che è
sempre toccato dal sole, dove l’erba fa come una piccola radura.
Guardavo
la terra ubriaca d’acqua dopo le abbondanti nevicate invernali, i raggi del
sole che filtravano attraverso gli alberi come attratti dalla terra e la terra
che sembrava sussultare con il suo nuovo verde, sedotta dal delicato calore del
sole.
Lei
mi si è accostata silenziosamente e il mio fiuto, sentinella instancabile della
mia anima selvatica, ha colto ancor
prima dei suoi passi la sua cannella.
Non
ha detto una parola, mi si è messa accanto, guardando nella stessa direzione
del mio sguardo.
Zitta.
Solo
odore di cannella.
Ero
imbarazzata, ma allo stesso tempo così piacevolmente avvolta dalla sua presenza
da restare immobile, come quando ci si
ferma, incantati, davanti ad una farfalla o ad un passero e ci si trattiene anche
dal più piccolo, lieve movimento per timore che questi possa scappar via
spaurito.
I
gesti, le parole, sospesi, in quel quadro di silenzio…
Fu
lei a parlare, improvvisamente, come a continuare un discorso cominciato chissà
quando: “Il cipresso è un bell’albero, non trovi? Ed è una pianta balsamica: con
questi freddi Dio sa quanto possa far bene! Ti va una tazza di tè? Ho appena
fatto i biscotti”.
Ecco,
il suo odore di cannella in quel momento non era più un mistero, lo rimaneva però
la ragione del suo invito. Ci sono, tuttavia, misteri che non è necessario
svelare, che ci si fanno dinnanzi per essere accolti, semplicemente.
Avevo visto Nina diverse volte,
per strada. Ogni volta ero rimasta ad osservarla, incuriosita e stupita. Non so
cosa fosse di lei, ma c’era qualcosa
che mi affascinava.
Così,
per forza di attrazione, quel giorno sono entrata nella sua casa.
Come
spiegare la chimica che nasce tra due persone ancor prima che si parlino, quel
lento accostarsi dei pensieri, dei sentimenti, dei gesti, che si mescolano come
a formare, ingrediente dopo ingrediente, un buon impasto? - questo accostamento
di immagini, così concreto, a lei sarebbe piaciuto molto! -.
E’
mistero puro e semplice e così mi lasciai andare ad un incontro che il tempo
aveva già preparato dentro di me.
Un
detto orientale afferma: “Quando il
discepolo è pronto incontra il maestro”, e Nina arrivò con il vento giusto,
al tempo opportuno.
Era
una donna così particolare!
Quel
pomeriggio, mentre mi serviva il tè, alla rosa canina - per rilassare il cuore
e rafforzare il sistema immunitario, diceva -,
mi giungevano gli odori di quella dimora così piccola e così accogliente,
non so… era come un grembo.
Non
era affatto una casa disadorna, anzi era curata nei dettagli, seppur senza la
maniacalità di quelle stanze bardate come musei del tutto, ma si riusciva a
cogliere oltre ogni mobile, oltre ogni oggetto, un vuoto, non una assenza, quanto piuttosto uno spazio.
C’era
spazio.
E
i miei polmoni respiravano assieme agli aromi della casa un senso di libertà
autentica.
Prendemmo
il tè, accompagnato da quei biscotti deliziosi di cui avevo pregustato l’aroma
nel suo odore. Lei li chiamava i “biscotti del buon umore”: erano carichi di
spezie odorose, inebrianti.
-
Me ne scrisse la ricetta su un foglio giallo, lo ricordo come fosse stato oggi,
con la penna blu-.
Mangiavo
e non era solo la mia pancia a nutrirsi: venivo nutrita profondamente.
Ero
placata dal calore del tè, dal profumo intenso di quei biscotti e dai gesti lenti
e pieni di solennità di Nina.
Il
quadro di Chagall fu una delle prime cose di cui parlammo, di quegli amanti
sospesi nella quotidianità di una cucina.
Disse
a commento di quella scelta: “L’Amore è la possibilità di vivere accordarti con
la Grande Vita
che vibra in tutte le cose: Chagall mi piace perché è questo che vedo nei suoi
quadri. Vuoi ancora del tè?”.
Chagall,
il tè, Dio. Ero incantata dalla semplicità con cui riuniva tutto nel suono di
poche parole, così efficaci.
Poi
parlammo della sua cucina, di come avrebbe preparato le verdure che erano
accanto al lavello, già mondate e pronte all’uso.
C’era
passione in quel che diceva, ardore per le carote e le patate, slancio per le
mele e il filetto di maiale: “Il Signore crea, conserva e dispensa per noi le
piante, gli ortaggi e tutto ciò che può esserci di nutrimento. Tutto viene da
Lui, tutto è pervaso della sua Presenza: quando mangiamo noi ci nutriamo di
Dio! Perché Lui desideriamo in tutto ciò che ci dà gusto, anche se spesso non
ne siamo neanche coscienti. Hai mai sussultato all’odore dei peperoni?”.
Nutrirsi
di Dio. La gioia dei peperoni…
Per
lei non esisteva un dentro e un fuori, un sopra e un sotto, un sacro e un
profano, tutto era gravido di divino. La sua cucina era luogo del passaggio di
Dio quanto lo era l’angolo di preghiera che aveva nella sua camera da letto e
tutto era, senza soluzione di continuità, equilibrio e bellezza.
Tornai
in quella casa molto spesso da quel pomeriggio di fine inverno e mentre
mangiavo i suoi piatti venivo alla luce.
Una
parte di me, rimasta sepolta nella confusione di un tempo di dolore, riemergeva
tra le verdure e le torte, cucinata ogni volta in una nuova forma.
Nina
si dava in pasto.
Cucinava
le alchimie tratte dal suo spirito, metteva a disposizione la sua carne, la sua
realtà contraddittoria di donna - ah, se amava gli opposti! -, e apparecchiava
con estrema cura i suoi giorni.
Fino
all’ultimo giorno.
La
morte se l’è presa tra le braccia come una bimba, mentre era impegnata nelle
sue solite faccende, - fiera e forte -, e le ha sussurrato che era ora. “Saluta, è tempo di andare”. Forse le ha
detto così.
Quando
sono arrivata da lei mi ha abbracciata, aveva odore di pepe nero e pane. Era serena.
Mi
ha detto, con una risata piena di gusto: “Stasera niente cipolla, mi
raccomando, lacrime quanto basta! …saprai regolarti…” e i suoi occhi erano due
piccoli laghi verdi, adagiati come un ricamo sotto la fronte bianca.
Nina
aveva l’essenzialità del pane e l’eccentrica saporosità del pepe.
Il
suo corpo di pane con la pancia lievitante e tenera, il seno accogliente di
madre e il viso candido di bambina, come appena impastati e il pepe, il pepe
nero e il sole caldo che erano il suo spirito e la sua anima. Erano lì.
Il
tempo di una lacrima, la mia, calda, gonfia della vita che era stata in lei,
dei suoi giorni, dei suoi odori.
Il
solco di una lacrima e via.
Dopo
la sua morte - così buffa a dire il vero, perché lei sorrideva come se le si
facesse un leggero solletico sotto il mento, mentre andava via -, dopo la sua
morte ho avuto in dono la sua casa e tutta la storia che essa racchiude. Ogni
evento accaduto dentro e fuori. Tutta la sua storia.
I
muri grondano parole e quelle parole, parafrasando un verso, sono uomini.
Vivo
qui, ora, con il mio uomo.
Chagall è sempre accanto alla
finestra, questa con le erbe aromatiche.
Ogni
volta che lo guardo il presente e il passato si mescolano come aromi di cucina e
si leva, dal profondo, quell’energia vitale che tutto crea e conserva, la viriditas che è in me come nel più
tenero germoglio verde, quell’eros divino che Nina, con la sua presenza, trasse
da me.
Annuso
l’aria, allora, - la senti l’aria? diceva lei -. La sento e il mio sorriso parte molto oltre le mie labbra rosse.
Avevo 10 anni.
La sera prima di questo dettaglio, che
ha cambiato in un giorno la vita intera, mi ero lasciata ispirare da una
pubblicità alla tv: era la reclame di un bagnoschiuma e mostrava una donna
completamente immersa in una vasca da bagno traboccante di bollicine. Nel
completo relax (che solo quel
prodotto poteva offrire!) pianificava la sua giornata e poi si alzava, energica
e scattante, per vivere quanto si era proposta.
Mi sembrava una buona idea, pareva
funzionare, e durante il bagno serale (pur senza quel bagnoschiuma e con uno shampoo alla mela verde che s’intonava
alle mattonelle e lasciava un profumo di super pulito in tutta la casa) feci la
stessa cosa e cominciai a stilare un programmino niente male di ciò che avrei
voluto portare a compimento l’indomani.
Primo buon proposito della lista:
portare il pranzo al mio bis nonnino senza sbuffare con mia nonna.
Era un classico. Lei mi chiedeva di
farlo ed io mi ribellavo. Ovvio, anche.
Tutti col piatto davanti ed io per
strada con il profumo delle succulente pietanze di mia nonna sotto il naso!
Quel giorno sarebbe stato diverso.
Lo è stato.
Era mattina presto quando bussarono
alla porta. Il mio bis nonno era morto.
Black out dentro me.
Non solo perché era la prima esperienza
di morte in famiglia.
Lui era morto prima che potessi
assolvere a ciò che era giusto, prima che potessi offrirgli con gioia quel
semplice pasto, prima che potessi non
rimpiangere qualcosa.
Un gran colpo. Povero nonno, e che ne
poteva sapere lui di morire proprio il giorno in cui la sua bis nipote aveva
deciso di non rimandare ciò che va fatto?
Nell’economia della mia vita è stato
un gong pieno di risonanza.
Da quel momento in poi ho giurato a me
stessa che non avrei rimandato alcuna cosa. Mai più.
Così è stato.
Da allora nulla è stato più banale, né
un ciao prima di andare via, né un sorriso per strada. Tutto è stato, da allora
in poi, come il primo e l’ultimo momento da vivere. Ed è stato un grande dono,
una meravigliosa eredità di vita scaturita dalla morte.
Di quante cose rimandate può essere
intessuta una giornata, di quanti rimorsi per non aver detto o fatto quel che desideravamo
dire o fare può annoiarsi la vita.
E di quanti vorrei essere ma… possiamo rovinare un’esistenza!
La vita è QUI, è ORA.
Non c’è tempo per rimandare un bacio,
una parola, un incontro.
Non c’è tempo da perdere.
Ora diciamoci ti
amo, qui mettiamoci a discutere per
crescere insieme.
Scambiamoci tutto, senza avarizia, non
lesiniamo noi stessi, lasciamoci andare alla vita che danza in noi, senza rimandi.
4 settembre 2005.
Una meteora era passata nella mia vita
ad indicare un nuovo sentiero possibile, una relazione tra chiaro e scuro,
notte e giorno, opposti che si attraggono.
Le meteore hanno caduta breve. Così è
stato.
Era un giorno che non aspettavo
nessuno.
4 settembre 2005, l’estate ancora
addosso, e tutt’intorno un serena aria di festa, quella che emanano le cose e
le persone quando è il tempo del riposo.
Mi ero vestita senza un’esagerata
attenzione, se non quella della mia usuale civetteria di femmina italiana
che mi fa scegliere capi abbinati anche per fare la spesa.
Minigonna di jeans, camicetta rossa,
capelli sciolti e un po’ di rimmel.
Tutto qui.
Nessun abito della festa, nessun
profumo oltre l’odore del mio vivere quotidiano.
Se avessi saputo che giorno era quel
giorno, certo avrei curato ogni dettaglio con la pazienza fine di chi attende…
ma la vita non aspetta che siamo pronti quando decide che è tempo di svoltare
l’angolo.
La mattina mi ero lanciata in una
parata degli abbattimenti più profondi: s’era fatto un vuoto.
Il momento propizio per gli eventi
importanti.
Mio fratello, luce della mia vita
sempre, mi fa stasera vieni al concerto
con me? Francesco Renga avrebbe suonato in una località vicina.
Vado? Posso lasciare la mia parata
personale e lanciarmi nella vita vera?
Vado.
Lascio cadere la mestizia.
Completamente.
Metto su il sorriso migliore.
In macchina con noi ci sono degli
amici che conosco da sempre e lui.
Anche lui lo conosco da sempre. Da
quando a 12 anni mi disse, sotto le acacie in fiore dell’oratorio, solo ciò che si ama cresce.
E uno così come te lo scordi?
Gli ho fatto da promoter per tutti gli
anni a venire da quel giorno.
Lo consigliavo
alle mie cugine, più piccole di me come lui, e ne tessevo lodi infinite.
Bello, intelligente, simpatico: che
aspettate, donne, fatevi avanti!
Ma c’era qualcosa. Lui mi metteva
soggezione.
Non riuscivo ad accettare un suo
passaggio in macchina - grazie, mi piace
camminare! – con le buste della spesa stracolme? (matta).
Le nostre strade sono famose per fare
schifo. Non ce n’è una fatta come si deve e quella sera in macchina, le curve,
i fossi, facevano a gara perché mi avvicinassi a lui anche solo di poco ed io…
mi aggrappavo come una cozza allo scoglio contro lo schienale del sedile. Immobile, please!
Perché? E che ne sapevo!
Poi il concerto. Bello, senz’altro, ma
non è il sorriso – tra l’altro notevole – del Renga che ho impresso dentro a
memoria di quelle ore.
Lui che mi prende in braccio perché io
bassina possa vedere meglio, le sue
labbra venute come sfondo in una foto fatta con un altro amico, la grazia dei
suoi gesti discreti e pieni di cura, l’emozione di scambiarsi i numeri di
telefono (o meglio lui che mi da il suo, tra l’altro sbagliato!) e gli occhi
sorpresi di mio fratello che mi guarda dallo specchietto retrovisore con uno
sguardo sorpreso all’inverosimile perché non capisce cosa non sta capendo!
Ecco, se quel giorno non avessi
accolto l’invito, una porta aperta non sarebbe stata attraversata e non sarei
entrata nella più grande avventura della mia storia: lui.
E’ arrivato come la più inaspettata
delle notizie, come un temporale estivo dolcissimo e penetrante. E’ arrivato
come la più familiare delle forme, il più intimo dei suoni, il più quotidiano
degli odori.
Era quasi l’imbrunire, l’ora più
intensa del giorno, quella in cui la luce chiama le tenebre per una danza, una
lotta d’amore che veste e denuda dei suoi colori il cielo e mostra tutta
l’intensa voluttà del gioco del darsi e del sottrarsi.
Non aspettavo nessuno e lui ha
riempito, improvvisamente, l’aria intorno a me. L’ha saturata della sua storia.
Mi guardava come chi spia da dietro
una finestra semichiusa l’arrivo di un ospite atteso.
Mi guardava con l’intensità della
discrezione più tenera, come se i suoi occhi mi bevessero a piccoli sorsi.
Poi quello sguardo…
Le mani sulle labbra, a sostenere il
mento scolpito, e quello sguardo come una freccia liberata dall’arco della sua
vita per un volo, lunghissimo e brevissimo insieme.
Lunghissimo quel volo. Ha attraversato
tutta la mia storia: ogni istante vissuto fino ad allora. Le ore, i sogni, i
progetti.
Brevissimo quel volo. Fino a me, già
vicinissima a lui. Alle sue ore, ai suoi sogni, ai suoi progetti.
Uno zenit.
Questo quell’ora è stata.
Ogni cosa, improvvisamente, era al suo
posto.
I giorni, da quel tramonto, hanno
smesso il loro regolare corso e lo spazio intorno non è più lo stesso.
Era un giorno che non aspettavo
nessuno.
Poi il vento è cambiato e una brezza
lieve ora scuote le mie chiome, come un richiamo costante, un invito fedele
alla danza, alla stessa lotta d’amore che la luce e le tenebre intessono
quotidianamente.
Ora, quel dettaglio, l’uomo che in un gioco di scoperta infinita, non smetto
di guardare ammirata, l’uomo che mi toglie la panna dal dessert, perché sa che non mi piace, l’uomo di cui mi
innamoro ogni mattina, ogni notte, è tutta
la festa della mia vita.
Una porta, aperta per sempre, su mille
mondi possibili.
Siamo due piscioni.
Se partiamo nel primo pomeriggio
dobbiamo per forza fermarci in qualche autogrill. Il pranzo ci stimola la
diuresi.
Conosciamo un sacco di posti dove
farla! Come quel mio amico che, costretto da ragazzo alla dialisi e non potendo
bere acqua, conosceva tutte le fontane della sua città.
Memoria della necessità la nostra,
memoria del desiderio la sua.
Quella volta era di sera. Eravamo di
ritorno da un viaggio, anche allora. Una relazione a quattro ruote quella. I nostri dialoghi interminabili si
mangiavano un sacco di chilometri, mentre noi respiravamo quella calma
atmosfera dell’intimità profonda. On the road, era quel tempo.
La macchina profumava di sigaretta e
caramella alla menta. Il suo rito.
Fermi all’autogrill. Lui va in bagno,
io resto in auto.
Ed ecco il dettaglio: dal mio punto di
visuale posso osservare la grande vetrata della stazione di servizio proprio
nel luogo in cui si trova la cassa.
Lui si ferma lì per acquistare
qualcosa. Lo guardo ed è in vetrina. Lo meriterebbe.
Osservo i suoi gesti pacati ed
eleganti e osservo in me l’onore che provo di poterlo avere accanto,
nuovamente, solo dopo pochi istanti da quell’esposizione sotto i riflettori di
un autogrill che è diventato un palcoscenico per la sua bellezza.
In una frazione di secondo i nostri
sguardi s’incrociano e lui abbozza un sorriso.
Ha capito.
E’ la visualizzazione simbolica della
nostra relazione: come da dietro un vetro.
Del mio eccessivo rispetto.
Della sua eccessiva prudenza.
Dopo anni, molti anni, ricordo con una
messa a fuoco perfetta quel dettaglio di una serata che ha scattato la foto per
sempre di una storia.
Un dettaglio che ha lasciato tanto
silenzio prima, tanta rabbia poi, tanto silenzio ancora dopo, ancora dopo e
ancora dopo.
Ma la lezione del vetro l’ho imparata.
Un bel vaffanculo a volte val più di mille parole e in amore - qualsiasi
amore! - chi fugge perde sempre.
Quante volte guardiamo la vita come da
dietro un vetro, come se tutto fosse in vetrina. E ci sentiamo troppo
straccioni e inadeguati per allungare la mano e prenderci quel che desideriamo!
O abbiamo troppa paura delle conseguenze dell’amore, di ciò che può innescare
un avvicinamento all’altro, l’affetto dato e ricevuto senza armatura, senza
corazza!
Ci passa la vita davanti e noi, come
bambini golosi col naso appiccicato alla vetrina di una cioccolateria, ci
perdiamo il meglio.
Da dietro un vetro mai più.
Vado a prendermi i miei sogni appena
l’aurora sveglia le nuvole, corro a caccia di desideri non appena il vento si
alza.
Romperò il vetro, tutti i giorni, ma
non resterò a guardare, mai più, muta, al di là del vetro, la vita sfuggirmi.
Non lascerò scivolare via la vita che
scorre bellissima e pronta come una sposa, la coglierò con lo slancio di uno
sposo, con dentro la passione di tutto il possibile.
Vado a prendermi tutto, al di là del
vetro.
Avevo un amore tutto platonico nell’adolescenza.
Una storia romantica di amore
impossibile. Beh, romantica a pensarci ora: quante lacrime, allora!
C’eravamo conosciuti d’estate, in
luglio. Ad agosto non potevamo più fingere telefonate amichevoli e ci siamo
detti tutto.
Sono stata io, in realtà, con la mia
idea del se non ora quando, a prendere
coraggio e a manifestare, per entrambi, che i programmi di matematica erano
mutati in esercizi di chimica.
Sì, perché l’amore è così: hai voglia
ad avere chiaro l’inventario del dovere, la planimetria dei percorsi, la mappa
di tutta la vita. Se la chimica s’intrufola in una relazione non c’è bussola
che tenga. E’ dirottamente puro ed estatico dell’esistenza. Una meraviglia!
E’ cominciata così, come un volo
dirottato, la più fervida corrispondenza della mia vita.
Ci scrivevamo con una frequenza dal
sapore d’altri tempi.
Alle due meno un quarto, massimo le
due del pomeriggio, il postino arrivava ed io percepivo, come una lupa, il
passo motorizzato di quell’araldo inconsapevole di lettere d’amore.
Scendevo le scale volando e poi aprivo
la cassetta della posta come un pacco di Natale. A volte non davo al postino
neanche il tempo di infilare le lettere nella buca. Ero già sotto ad
attenderlo, non appena girava l’angolo in direzione della casa dei miei.
E poi c’era il rituale. Guardavo la
busta adorante e quella grafia tonda e bellissima, elegante e buona.
Rientravo in casa e mi rifugiavo in
camera.
Schiudevo la busta con cautela e
respiravo quell’odore sperando rivelasse tracce del suo. Poi aprivo, solenne, i
fogli (le nostre erano lettere lunghe, lunghe, lunghe quanto lo strazio della
lontananza) e m’immergevo con voracità fra quelle parole.
La prima lettura era velocissima. Era
quella della passione.
La seconda era lenta. Vi coglievo gli
accenti di tenerezza.
La terza, e le innumerevoli a seguire,
erano analitiche.
Lo sappiamo tutti, no, noi donne
percepiamo la scelta della virgola e del punto esclamativo come un atto consapevole
da parte dell’uomo che scrive.
A voler essere del tutto onesti,
sappiamo anche che… non lo è!
Come non lo è il silenzio in macchina
(non sto pensando a niente per una donna è un mondo che si
spalanca, per un uomo è non sto pensando
a niente!... invidiabile virtù maschile del vuoto dei pensieri!).
Quindi, dicevo, le nostre analisi del
testo, che siano dello scritto o del parlato, sono piene di fraintendimenti.
Siamo noi che ci fraintendiamo con noi stesse! Punto.
Quanti sogni abbiamo coltivato nei
solchi di quelle parole: su quelle M segnate
alla perfezione e quelle I sinuose. Quante
lacrime sulla sua bellissima A.
Dettagli.
Piccoli dettagli di un amore profumato
di miele, come il cuore di certi fiori colti durante una passeggiata insieme sulle
rocce. Doloroso, come di parto: una ferita che ha portato ad entrambi un
traboccamento di vita.
L’altalena dei nostri sentimenti e
delle nostre emozioni è passata tutta attraverso consonanti e vocali scritte
con cura.
Perché le lettere d’amore si scrivono
per bene. Magari di getto, ma per passione, mai per fretta.
E la cura dei dettagli di una sola
parola, pensata e scritta come la più grande carezza possibile donata all’altro,
è passata nelle nostre vite.
Il dettaglio di un fiore in bagno, di
una candela profumata sulla soglia. La carta da regalo scelta con attenzione, i
sorrisi donati a far più bello il cielo.
La bellezza della celebrazione delle nostre vite. Le mani tese.
Ecco, un altro dettaglio che ha
cambiato, giorno dopo giorno, la mia vita.
Se ci pensiamo, ad ogni istante, scriviamo lettere - che restano - sulle pagine dei giorni.
Se ci pensiamo, ad ogni istante, scriviamo lettere - che restano - sulle pagine dei giorni.
Le parole creano, fecondano. E uccidono,
devastano.
E se ogni tanto ci ricordassimo di
scrivere lettere d’amore?
Con cura, devozione, con la volontà di
lasciare un segno di bellezza per sempre?
Una lettera d’amore al giorno e pian
piano torneremmo a cantare d’amore, magari, anche solo guardandoci negli occhi.
Da uomo a uomo. Solo perché siamo
della stessa carne e delle stesse ossa.
E, forse, poco alla volta, torneremmo anche
ad ascoltare il canto d’amore che la creazione stessa eleva continuamente, persino
mentre noi la devastiamo.
Vivere ogni giorno come se stessimo
scrivendo una lettera d’amore.
Esami di routine.
Entro nel laboratorio analisi, con la
solita faccia di me senza colazione,
ovvero zombie versione lifting (sapete che al rimmel non rinuncio mai!), e mi
siedo allungando il braccio sinistro e voltando la testa dall’altra parte.
Il sangue non mi impressiona, però
quello è il mio. Mi volto, non si sa
mai.
Ci
sono anche le urine,
mi dice la bella analista dagli occhi azzurri.
Ah,
non l’avevo letto!
Quindi mi passa una provetta dal tappo
rosso.
Raccolga
le urine in maniera asettica.
Allarme! - suona la campanella delle
emergenze nella mia testa e il movimento interno appare dallo strabuzzamento
oculare -, e che vorrà mai dire?
Ehm,
mi scusi, ma in che senso in maniera asettica?
Quando
appoggia il tappo della provetta su una qualche superficie, mentre raccoglie le
urine, lo metta capovolto, così che nessun agente estraneo possa poi risultare
nelle analisi.
OK. Chiarissimo.
Un dettaglio potente.
Ha rovesciato tutti i tappi della mia
vita.
Quello del barattolo del miele, del
dentifricio, del contenitore del caffè, anche quelli degli omogeneizzati di mio
figlio che andavano comunque buttati e non richiusi. Ogni tipo di chiusura,
alimentare e non, ha subito, da quel dettaglio in poi, il trattamento asettico.
Perché? Perché una wild woman come me
ha subito il forte impatto immaginale dei germi che si attaccano al tappo della
provetta delle urine per insinuarsi, subdolamente, nelle mie analisi, nella mia
viiiiiiiiitaaaaa?
Anch’io, che non ho ceduto all’amuchinare l’universo domestico ed extra
domestico ai tempi delle grandi tempeste virali, subisco la psicosi da I AM LEGEND?
Ricordate, quel film in cui Will Smith ci salva dalla fine per virus.
Un tappo delle urine mi ha stanata: ha
sguinzagliato la psyco salutista!
Per me, questo dettaglio, è stata la
dimostrazione lampante di come le notizie, gli eventi, ci condizionino anche a
nostra insaputa.
Quando ho cominciato a capovolgere
tutti i tappi del mondo l’ho fatto con un automatismo assoluto. Senza consapevolezza.
Solo più tardi ho preso coscienza dell’insinuazione
ambigua.
Sebbene io non sia mai stata una
casalinga disperata e maniacale certamente
il mio piano cucina non nasconde il bacillo segreto della peste
bubbonica!
Eppure quel gesto continuo a farlo.
Continuo a capovolgere i tappi.
Automaticamente.
Di quanti automatismi siamo vittime,
quanti pensieri auto limitanti ci chiudono in stereotipi che poi decidono dei
nostri pensieri e dunque delle nostre azioni e in fine della nostra storia?
Quanti lacci alla nostra più autentica libertà?
STANARLI TUTTI: ecco il lascito di quel dettaglio.
Il pensiero che il mondo dell’altro ci
invada, che l’invisibile sia il nemico, che la materia ci contamini, che la
fuga sia un buon metodo per stare al mondo, ecco il sussurro di quel tappo
rosso.
NO.
Non ci sto, caro il mio tappo!
Io voglio immischiarmi alla folla patogena
o no, sporcarmi le mani, camminare scalza sulla terra piena di brulicante vita
e godere della materia, che è il polo visibile dell’invisibile e restare in
mezzo alla tempesta degli ormoni, delle relazione, dei tempi, sporca di mondo.
Voglio una vita contaminata.
Corro il rischio.
Ero in metro a Roma.
La folla più pressante del solito. Mi
piacevano quei bagni d’umanità sconosciuta. Ognuno col suo sguardo perso in
chissà quale storia, ognuno col suo modo di tenersi in equilibrio, fuori come
dentro.
Ed è stato lì, in uno dei 29 settembre
importanti della mia vita che ho sentito l’impulso irresistibile ad essere una silenziosa benedizione per tutti. Wow, mica
niente!
In realtà ho sempre avuto in cuore
questa sollecitudine benedicente, fin da piccola. Prima in una dimensione
magica, di quella magia dell’incanto e non dell’incantesimo, quella che
accresce la realtà rivelandone l’intrinseco potenziale, poi via via crescendo,
in una dimensione… magica. Uguale. Stesso incanto.
Mi piaceva chiedere a Dio di versare,
come pioggia dolce, la Sua benedizione sui luoghi in cui passavo, sulle persone
che incontravo e nelle situazioni più svariate.
Sentivo una sorta di responsabilità
benedicente.
L’entusiasmo del bene della ragazzina che ero è stata una scuola di bellezza e di mazzate. Non me ne lamento. E’ servito. Tutto. Anche il letame. De
Andrè docet!
Per molto tempo ho cercato la mia
strada per benedire, con un discernimento profondo, lungo e ben guidato.
Un tempo di aspirazioni grandi, sogni
immensi, come deve essere l’adolescenza.
Poi la risposta è giunta dove e come
non mi aspettavo.
Nel caos. Nella vita più ordinaria
possibile.
Il cuore teso all’Uno, nel molteplice
più colorato e vario, ha scandito battiti sicuri mentre svoltavo l’angolo e
andavo a ricevere la mia verità.
Ed ora, mentre stiro la maglia che il mio
uomo indosserà, sento scendere, dal mio cuore al tessuto, una benedizione per
ogni piega, per ogni angolo accarezzato dal vapore.
Che banalità, vero?
Ci sguazzo nella bellezza del banale
quotidiano.
Nella mia vita piccola è il mio scopo
grande, quello per cui sono venuta al mondo.
Sta qui ed ora il segreto
della storia di ognuno.
Nel vapore del ferro, nell’acqua che
bolle in pentola, nelle candele accese, nelle impronte sul pavimento, nell’entusiasmo
per quel libro letto insieme, nelle risate per le parole sapientine di nostro figlio, nel cuore condiviso con persone nuove,
nell’abbraccio d’un vecchio amico ritrovato, nell’e-mail che non ti aspettavi,
nel canto delle cicale e le nuvole che sbadigliano in questo pomeriggio di fine
agosto.
Il segreto, già.
L’ho trovato in un giardino,
ricordate?
Ma questa è un’altra storia.
Ah - tanto per togliere ogni equivoco
di edulcorazione da romanzetto devoto - che poi le maglie il mio uomo se le
stira anche da solo, eh!
12. L’Eros di Dio
16. L’odore che ha l’eterno
12. L’Eros di Dio
(nella foto La Secca di Maratea, Basilicata)
La natura ha avuto su me una forza
d’attrazione grandissima, sempre.
Sono stata concepita su un prato.
Sono cresciuta sotto gli alberi.
I miei giochi erano succulenti
pranzetti preparati con erbette pestate a dovere e distribuiti generosamente a
tutti i bambolotti che facevano il presepe, tutto l’anno, sull’enorme scaffale
di legno che mio padre aveva costruito in cameretta.
E la storia del mio giardino incantato la conoscete. Anche se non tutta.
C’è una ricarica gratuita nello stare
in mezzo alla natura che è un aspetto imprescindibile della mia vita.
La mia scelta di restare qui, in un paese
piccolissimo, nella bella terra di Lucania, credo sia stata dettata profondamente
da questo legame con i miei alberi anziani, il mio giovane acero, con la zolla
pietrosa mia, con questa terracarne che mi ha partorita più e più volte e
sempre mi partorisce a vite nuove.
Le colline sinuose, i vigneti come
tappeti finemente tessuti sulla terra bruna, le messi di grano, i nibbi, le
civette sui tetti delle case, le stelle che da qui si vedono bellissime e
chiare, le fontane gorgoglianti che echeggiano storie lontane.
Il mutare delle stagioni che da noi è
evidente nei colori, negli odori, nei silenzi declinati con echi differenti. I
cani e il loro latrato, per esempio, hanno un eco diverso a seconda della
stagione, del clima: ci avete fatto mai caso?
Eppure andrei ovunque. Mi piace tutto,
abiterei volentieri in altre parti del mondo, ma ho scelto di stare qui. Almeno per ora.
Dove posso vedere l’Eros di Dio
espandersi quotidianamente nel verde che ho intorno.
La maternità mi ha fatto capire questo
Eros meglio di qualunque altra cosa.
Che non farei per dare gioia a mio
figlio? Colorerei il mondo, lo profumerei, lo riempirei di canti.
Ma Dio lo ha già fatto. E’ tutto
pronto perché gli occhi trovino gioia, l’olfatto respiri bellezza, i sensi
planino sulle cose allegramente.
Almeno questo è il piano originario.
Un piano che mi piace.
La celebrazione di Dio che la natura
fa è una lezione incredibile e se solo riuscissimo ad unirci a questo canto dei
pioppi, del mare, delle vette!
Francesco. Ecco, mio figlio si chiama
Francesco per questo, perché c’è stato un folle d’amore, secoli fa, cha parlava
coi fiori e gli uccelli e li chiamava fratelli ed ha ridato senso all’incanto
che vediamo nel mondo, ricollocandolo nell’orizzonte di un Dio, Padre e Madre,
che crea la bellezza per la sola gioia dei figli.
Sono cristiana, questo non so se l’ho
scritto da qualche parte.
Mi sono convertita dal cristianesimo
alla cristianìa, come direbbe Panikkar, da una cultura religiosa ad una
esperienza del credere.
Questo mi procura non pochi casini, ma
va bene così, mi prendo la responsabilità delle mie aperture, che poi non sono
mie ma porte che Dio stesso apre.
Sapete, è più facile camminare con le
stampelle che ogni istituzione ci propone, ma ad un certo punto della vita, se
si vuol davvero essere felici, bisogna avere gambe solide, e non ginocchia
vacillanti, e andare con forza e tenerezza, lì dove si deve.
Io ci sto provando.
E la gratitudine che ho per il mio
percorso è immensa. Per quel ‘sorriso silenzioso e attento’ (direbbe Tagore) di
Cristo sulla mia rotta.
A 15 anni sono diventata cristiana
praticante.
A 38 ho cominciato ad imparare a
credere.
Oggi.
Sapete, l’eucarestia più bella della
mia vita l’ho celebrata, con il mio sposo e nostro figlio, in mezzo al mare e
alla natura più incontaminata.
Eravamo noi il pane e il vino, noi,
uniti a tutto ciò che canta a Dio la bellezza d’esserci. Ed eravamo grati.
E’ questa l’eucarestia (che poi vuol
dire proprio rendere grazie!) che può
e deve dare senso a quella degli altari.
Quella vitale dei dettagli del
quotidiano.
Altrimenti c’è solo precetto. Annoiato,
annacquato di moralismo, vuoto di vita.
Ecco, la grazia di Dio non ha
paragoni, ve lo dico fuori dai denti.
La natura è altamente loquace della
Bellezza che ci spetta gratuitamente, ma la grazia, questo continua pioggia di
Meraviglia che ci attende ad ogni angolo del giorno (pure di quelli meno su), beh, la grazia non ha paragoni. Lo
dico da innamorata di una Fonte che non cessa di effondere Eros.
Francamente: se si entra nell’Eros di
Dio davvero tutto cambia. La natura delle cose cambia, per noi.
Ogni dettaglio della vita.
E sapete quanto i dettagli per me
siano importanti!
Come lo so?
Graziosa libreria dell’interland
milanese.
Siamo pronti per presentare il libro
di un amico.
Seduti davanti ad un tavolo bianco e
una piccola platea ci siamo io e l’autore, terroncello come me, e due donne,
raggianti di vita, lombarde.
L’inizio dell’evento è alle 16.
Alle sedici meno due minuti una
signora comincia a reclamare: ‘Ma la presentazione non era alle 16?’, noi
rispondiamo affermativamente e lei ‘… ma mancano solo due minuti, eh!’.
Già da queste prime battute si respira
un’aria decisamente diversa.
Da noi nessuno si sognerebbe mai di
reclamare l’inizio di un evento ricordandoci che mancano solo ‘due minuti’ al
countdown.
Perché? Perché il tempo, da me al sud,
è una diluizione dell’anima.
Gli orologi da noi cadenzano il tempo
per attimi approssimativi, senza star lì a centellinare i minuti. ‘Che ore
sono? Quasi le sette… Fra un po’ sono le cinque e mezza’, cose così. ‘Sono le
diciotto e cinquantadue’ non lo direbbe mai nessuno!
Ironia a parte, chi vive al sud o c’è
stato sa bene che la precisione non è nostra peculiarità. Abbiamo tantissimi
talenti, ma la precisione non ci è costitutiva.
Il quarto d’ora accademico è il minimo
sindacale.
Ce la prendiamo un po’ comoda,
diciamo, a volte anche un tantino troppo.
La presentazione è stata
piacevolissima e anche la scorpacciata iper glicemica e iper calorica di libri
che abbiam fatto quella sera è un ricordo molto bello: in treno una signora,
ricordo, apprezzò i nostri zaini carichi di cultura. Pensa se avesse sbirciato
nelle valige! Eravamo colmi, sazi di quelle scorribande letterarie che si
possono fare poche volte nella vita, se non si è molto ricchi, e che è stata il
nostro dono di nozze marchiato Feltrinelli. Siamo così. Libromaniacali.
E mentre mi aggiravo in quella
libreria, la sera di cui vi dicevo, con la solita aria assorta di chi gioca a
nascondino - ‘libro del mio momento: trovami!’, così funziona – ecco farmisi
incontro il proprietario.
‘Guardi, le devo dire una cosa’.
‘Prego, mi dica pure’.
‘Sa, quando lei ha cominciato a
parlare il suo accento non mi è piaciuto per niente. Così diverso dal mio!’.
‘Beh, anche il suo è diverso, ma non
mi dispiace…’.
‘Poi però sono rimasto stupito, eh, lei
è davvero in gamba, mi è piaciuta moltissimo. Per carità, non pensi che sono
razzista! Si figuri: ho una nipote siciliana, però intelligente!’.
Potete ridere pure.
Il però è stato esilarante.
La sera, a cena dai nostri meravigliosi
amici lombardi, raccontando l’episodio abbiamo riso molto, qualcuno era un po’ indignato
per l’accoglienza, ma alla fine ci abbiamo scherzato su.
E’ un ricordo memorabile. Una di
quelle piccole cose dal grande peso.
Vabbè, l’insegnamento è chiaro: la
gabbia più difficile da cui uscire siamo noi.
Ma non è solo questo.
Quel ricordo mi si desta ogni volta
che sono tentata da un pregiudizio. E chi non lo è? Ora come ora basta una
barba scura e un corano per gridare all’attentato, un rosario e un viso pulito
per dire che si è santi.
Centinaia di volte al giorno siamo
sulla soglia del pregiudizio e spesso entriamo, oltre quello, nella nostra
gabbia dorata, perdendoci qualcosa.
Quel qualcosa è la vita che scorre e
ci viene incontro in mille diversi suoni, colori, odori, sapori.
Il pregiudizio anticipa il bello che
può sorgere oltre una credenza limitante, che ci inchioda ad una fissità senz’anima,
senza soprassalti, senza slanci.
Insomma, sono una terrona intelligente
- si dica eh! – e oltre l’accento c’è di più!
C’è la mia terra, la mia storia, la
mia gente.
Così come nell’accento del proprietario
di quella libreria c’è tanta vita di tante vite insieme.
Ognuno ha il suo accento quando viene
al mondo ed è meravigliosa questa sinfonia di suoni diversi che orchestra la
nostra casa comune: la terra.
A volte dovremmo chiudere i sensi
esterni, per vedere davvero, e guardare in profondità.
Col cuore.
Erano le 6 del mattino.
Lui è arrivato con un cigolio di
rotelle da oliare.
Il verde è stato il primo colore che
ho visto guardando nella sua direzione.
Verde pastello. Non bello quel pastello, scialbo, direi. Di quel
verde che nessuno potrebbe scegliere consciamente per nulla, né vestiti, né
pareti, né elementi d’arredo: quel
verde che in posti come quello è il colore di tutto.
L’infermiera, il suo volto, è un
dettaglio rimosso: una stronza.
Lei, comunque, me lo porge f i n a
l m e n t e tra le braccia.
Mani minuscole, dita affusolate. Delle
manine da vecchietto, piene di rughette, tutte screpolate.
E poi quel viso. Il suo.
L’ho riconosciuto.
Era la prima volta che lo vedevo. L’ho
riconosciuto. Punto.
Niente da aggiungere o da sottrarre.
Era lui. Mio figlio.
Il suo volto scolpito nel mio grembo
era cosa sicura.
Lo avrei riconosciuto fra altri mille volti,
con la stessa fermezza che mi ha fatto sentire che era un maschietto dal primo
istante.
Non
le dico il sesso perché non ne sono ancora certa, fece la
ginecologa, ed io non importa: so che è
un maschio, lo sento dalla relazione che ho con lui.
La dottoressa allora confermò.
Il dettaglio delle sue guancette rosse
è entrato nella top ten dei dettagli più grandiosi di sempre. Immediatamente.
L’odore no. Quello suo vero, profondo,
avvolgente, che riempiva tutto - quello che poi diventa la droga per genitori
innamorati! - è arrivato dopo, a casa.
Lì puzzava un po’ di latte acido.
Torno al dettaglio, meno romantico, de
la stronza.
C’è intanto da dire che questo
aggettivo si riferisce non solo ad una infermiera: il LEI, in questo caso è
persona corporativa.
Erano tutte uguali.
Scendo nel particolare. Prima volta in
nursery.
Ho sempre parlato con mio figlio quando
era nel mio grembo e così ho fatto anche durante l’allattamento, fin dal primo
istante. Stellina mia, gli ho detto
quel giorno e LEI, con un’aria acida, che lo yogurt al limone è zucchero in confronto, mi fa mica è una femmina che lo chiami stellina! Io, sbagliatamente
gentile, le stelle non hanno sesso.
E quei pizzichi dolorosi al bambino
per farlo svegliare al momento delle poppate?
E quell’abominevole che ho trovato,
sempre in nursery, che scuoteva forte
quel corpicino indifeso?
Te
lo consiglio tuo figlio, piange sempre!
Si
vede che vuole la madre! Ancora sbagliatamente gentile.
Perché, direte, allora non ho avuto la
forza di difendere mio figlio?
Potrebbe essere perché ho trascorso,
con il mio uomo accanto ininterrottamente, 36 ore di travaglio ed alla fine
sono stata portata in sala operatoria (dopo l’ernia di un altro poveretto, perché
nell’imminenza, erano circa le 17 quando abbiamo deciso per il cesareo, non
c’era posto. Mio figlio è nato alle 18.15) e siccome l’epidurale non mi faceva
ovviamente nessun effetto mi hanno anestetizzata completamente e non ho visto
nascere mio figlio e sono uscita da lì intubata di drenaggi come ‘un’operata di
cuore’, dicevano gli addetti, e mio figlio, si è scoperto poi, aveva due giri
di cordone intorno al collo e la tachicardia a palla e io non avevo liquido
amniotico da più di 24 ore ed è andata bene grazie a Dio?
Tuttod’unfiato!
No. Non è per questo.
Non è stato lo sfinimento a dettare
gentilezza.
E’ stata l’abitudine a non
arrabbiarsi.
Pessima abitudine.
Sabato d’agosto. Felici in casa a
goderci un momento di intimità domestica, in un tempo bellissimo, pieno di
esperienze positive.
Arriva un certo Savonarola e, davanti
a nostro figlio, comincia a valangarci di parole piene di paura e ci lancia
addosso insinuazioni malevole.
Il punto era la mia pratica del reiki,
la tecnica di riequilibro energetico usata ormai anche in moltissimi ospedali
ed addirittura mutuabile: io ero la porta
di satana.
Una lunga trafila che vi risparmio, ma
se avete letto qualche romanzo sulla santa inquisizione (quanto è volgare
l’uomo quando alla propria legge omicida da il Nome di Dio!) potete davvero
immaginarvi qualcosa.
Ci mancava solo la A sulla porta di
casa.
Niente nella vita mi ha stuprato il
cuore come quella vicenda.
Non c’è niente di più terribile che si
possa dire ad una persona.
Non c’è niente di logico
nell’ignoranza più brutale.
Anche allora sono stata gentile.
S B A G L I A T A M E N T E.
La rabbia è un’emozione che ci aiuta a
difenderci. Ma io non mi sono difesa.
Ed ho portato i segni della rabbia,
però. Dentro.
Che male, che botta!
Non certo una ‘piccola cosa’, né il
male né la botta, eppure questi due eventi hanno cambiato la mia storia.
In meglio.
La gentilezza è onorevole.
E’ il tratto d’animo delle persone
luminose, leggere, trasparenti.
Ma senza il coraggio della propria
identità, la gentilezza perde la sua forza e diviene codardia.
Quando siamo capaci di difendere
coraggiosamente il nostro sacrario profondo, quello che determina chi siamo e come
stiamo al mondo, la gentilezza si trasforma in mitezza.
Solo l’uomo capace di attraversare
tutte le sue violenze, capace di fare di queste stesse violenze una terra nuova,
può vivere qui ed ora la pace che nasce dall’incontro tra il lupo e l’agnello,
la vipera e il bambino.
Ci vuole coraggio ad essere gentili.
Ci vuole gentilezza nell’essere
coraggiosi.
Ed io voglio vivere così.
15.
Come un barattolo
“Io non sono ciò che mi è capitato di
essere.
Io sono ciò che ho scelto di diventare”
(C. G. Jung)
Vorrei poter chiudere in un barattolo
di vetro una sera d’estate.
Le lucciole, i grilli, la luna e le
stelle, quel vento lieve, frizzantino, che ci fa sussultare come se qualcosa di
nuovo sia alle porte.
Un barattolo trasparente da guardare
all’occorrenza.
Non per malinconia, che a me le
stagioni piacciono tutte, solo per bellezza, per amore di bellezza.
E così, pensando a questo barattolo,
mi viene in mente che in realtà qualcosa di simile la possiedo già: è il mio
cuore.
Un barattolo capace di contenere l’infinito
vuoi che non possa custodire una sera d’estate?
Ecco un piccolo, piccolissimo segreto
che può cambiare una giornata ed infine anche la vita: la custodia.
Siamo così abituati a scattare foto ad
ogni ora del giorno, per postarle magari sui social network, ma sappiamo ancora
imprimere nel cuore istantanee che niente potrà cancellare?
Non so se vi è mai capitato. A me
capita spesso. E non c’è scatto fotografico che possa essere pari a quei lampi
di luce che scavano nel cuore il loro posto per sempre.
Un profilo nella penombra. Un sorriso
come una finestra aperta sul sole. Due mani che si trovano. Gli occhi dell’addio
e il ‘ciao’ del per sempre. Le labbra di quella sera che ti ha cambiato la
storia.
Il cuore è la custodia di tutta una
vita, il barattolo di vetro da guardare all’occorrenza: per amore di bellezza o
per rovesciare tutte le tempeste?
La risposta dipende da noi.
La risposta dipende da noi.
La vita che abbiamo vissuto siamo noi.
Le relazioni, gli incontri, le attese
e le separazioni, gli eventi straordinari e quelli ordinari, le notti e i
giorni siamo noi.
Nulla passa e basta. Ma questo NON E’
MAI UNA CONDANNA!
E’ una possibilità.
Si sente spesso dire che ‘ci sono
ferite che lasciano il segno’, il che equivale a dire che ci sono istantanee
del cuore che continueranno a tormentarti per sempre!
Non vorrei mai sbarazzarmi di queste
ferite, di questi solchi di luce improvvisa e del dono che anche la sofferenza
ha portato nella mia vita, di quell’universo nuovo che ha spalancato.
In una notte un po’ insonne, una di
quelle d’estate da collezionare, un pezzo di passato è riemerso
improvvisamente: la foto era lì, sotto le note di una canzone.
Un passato doloroso, segnato da una
grande separazione.
In quella istantanea del cuore il mio
volto era quello di molti anni prima, le lacrime le stesse. E l’amore immutato.
Cosa fare di questo volto, di queste
lacrime, di questo amore impresso a fuoco per sempre?
Tutto il bene che so.
Senza paura.
Senza paura.
Senza paura.
Lascio emergere l’immagine, la sua
emozione forte.
La accolgo, la guardo, me ne prendo
cura.
E ringrazio per quello che ha rivelato
di me: che sono mondi di diversità, che sono storie, uomini e donne, parole e
silenzi e che tutto è armonia tratta dal caos.
Una notte, un ri-cor-do (un’istantanea
del cuore) un dolore riemerso, è una strada – dentro – per evolvere verso il
compimento, con la consapevolezza che tutto, TUTTO, ci costruisce, anche ciò
che ci ha distrutti e che ogni sentiero è una strada verso Casa.
“Io non sono ciò che mi è capitato di
essere.
Io sono ciò che ho scelto di diventare”
(C. G. Jung)
16. L’odore che ha l’eterno
Qualcosa.
Qualcosa ha sempre attirato la mia
attenzione sin da bambina.
Qualcosa che non era più in alto.
Era dentro.
Qualcosa.
Una luce, il fremito dell’aria,
l’incanto di un profilo, un suono.
E poi un odore.
L’odore che ha l’eterno.
L’ho sentito all’ombra di una magnolia
fiorita, nell’aroma limpido e avvolgente di quel fiore meraviglioso e
vulnerabile come gli uomini.
Tra le pagine di un libro.
Nell’odore di certe sere d’estate,
sospese come un volo verso il tutto
possibile.
Con i grilli e le stelle a luccicare
in alto.
Quelle sere d’estate come una
promessa.
L’odore che ha l’eterno.
Oggi l’ho annusato nella mia bambina.
Con lei sul cuore, ad un certo punto,
ho sentito l’odore dell’eterno.
Tra le sue labbra, nel suo respiro.
Ho sentito chiaramente l’odore
dell’eterno.
E non so dire dove né come. Non so
dire nulla.
Ma era lì, era lui.
Era quell’odore delle cose destinate a
non finire mai.
Credo questo sia il paradiso.
Un luogo di infiniti odori, sapori,
suoni.
E i nostri sensi sono le porte del paradiso, già qui.
Porte che si aprono e dentro, dentro,
c’è qualcosa.
Qualcuno.
Sentire, attraverso i sensi, la
profonda qualità delle cose, quell’infinito
che abita i corpi, è permettersi di entrare, passo dopo passo, nel paradiso.
Mentre i sensi sono così allertati
accade qualcosa.
Accade.
E improvvisamente ogni sensibilità
sparisce e fa spazio all’esperienza più esaltante possibile, quella che poi
cambia i connotati a tutte le ore del giorno: il sentire il divino, non il
pensare, il sentire il divino che colma tutte le cose e le avvolge e le supera.
Può un semplice respiro riportarci a
casa?
Ridare alla nostra vita l’odore dell’eterno?
Può.
E’ il compito di ogni respiro.
C’era una volta, in un paese vicino
vicino, una festa piena di luci e bancarelle e in mezzo alla folla distratta
lui, il re del fico d’india.
No, non è una favola, è un ricordo.
Di quelli piccoli e intensi che
cambiano le cose.
Ci sono un uomo e la sua donna,
davanti ad una grossa bacinella azzurra, dentro cui galleggiano succulenti
fichi d’india come
panciuti pesci colorati.
C’è dell’acqua che brilla,
increspandosi al tocco del re, di tutti i colori delle luminarie intorno.
Ed un gesto, regale.
Lui, il re del fico d’india, pesca
dalla sua vaschetta e comincia con maestria a spogliare il frutto della sua
buccia.
Un gesto semplicissimo, ma di cui lui
è signore.
E c’è LEI, la sua donna.
E’ stato lo sguardo di lei, puntato
sui gesti del suo uomo, a farmene notare la regalità.
La donna lo guardava ammirata, rapita,
fiera.
Lui che sbucciava dei fichi era ai
suoi occhi il re del mondo. Era chiaro, evidente.
E lo era davvero!
Il suo fare maestoso, nobile, sicuro,
era quello di un re.
Un gesto che mi ha ammutolita, affascinata,
cambiata (con la discrezione delle piccole cose).
Non c’è un solo momento della nostra
storia, non una sola espressione di ciò che siamo che non sia una possibile manifestazione
della nostra regalità.
Siamo coronati e ce ne dimentichiamo!
Tutte le tradizioni riconoscono,
ognuna a suo modo, una corona sul capo degli uomini come simbolo del compimento.
C’è chi la chiama aureola, chi keter,
chi sahasrara … ma il significato è lo stesso.
Siamo re.
E tutto di noi può aiutarci a
ricordare questa regalità e tutto di noi può permetterci di manifestare questa
regalità.
Mentre lavoriamo, e siamo signori e
maestri di qualsiasi lavoro possibile – perché ogni mestiere è un’arte -,
mentre camminiamo, mentre mangiamo, mentre amiamo. Sempre abbiamo questa
possibilità di strapparci all’abbruttimento, che sembra dilagare ma in realtà
fa solo più rumore, e ricordare che siamo re.
E poi ci sono gli sguardi regali.
Come quello di lei sul suo uomo,
quegli sguardi che accrescono la nostra bellezza e la mostrano anche agli
altri, quegli sguardi che non giudicano, non spogliano, ma sopravvestono di cura e amorevolezza.
Quegli sguardi che ti scoprono dentro.
Una sera d’estate, di molto tempo fa,
un re del fico d’india e la sua regina mi hanno ricordato, con un gesto e uno
sguardo, che non esiste il banale, che non c’è un solo istante che sia fuori
dalla nostra crescita nella regalità e che sempre e ovunque, in qualsiasi
circostanza e occupazione, possiamo fare la differenza lasciando emergere da
noi tutta la dignità di cui siamo partecipi per natura e che sempre e ovunque
possiamo riconoscere nell’altro.
Su, coraggio, ognuno al suo posto,
senza far cadere la corona!
18. L’albero del Nome
C’è stato un tempo in cui tutto ciò che desideravo era essere sepolta nell’oblio
per ritirarmi in un eremo solitario
a cantare il Nome
che mormora il mio cuore.
C’è stato un tempo senza parole, in cui
le poche parole pronunciate erano troppe.
E’ stato un crogiuolo, una fucina per
forgiare la mia spada.
E’ su questa strada del desiderio che ho
trovato la vita che oggi mi onoro di vivere, è grazie a quell’anelito che ho
spalancato il cuore al ‘Tutto Possibile’, fino a sposare Antonio, fino a ricevere
il dono di Francesco e Irene.
Fino a ricevere la vita che era in serbo
per me.
Vi ho parlato del mio Noce.
E’ lui una chiave del mio segreto più grande.
Alla sua ombra ho imparato ad accogliere
l’invisibile.
Dal regno delle fate della mia infanzia
selvatica sono stata condotta verso l’Essere che permea tutte le cose, che dà
la vita, che crea continuamente.
Prima le sue radici e il suo tronco sono
stati per me il confronto con la potenza e la terrosità del Figlio di Dio.
Poi i suoi rami, su cui mi rifugiavo,
sono stati la tenerezza del Padre.
E, infine, lo stormire del vento fra le
foglie… il Suono Sottile del Silenzio.
Ho lasciato il Noce quando ha terminato
il suo ruolo di maestro.
Una piccola cosa, quel Noce come tanti
in un prato come tanti.
Ha condotto la mia storia - fuori come
dentro - ad una comprensione non più semplicemente razionale del divino in me e
in tutte le cose, ma dei sensi e del senso
del cuore.
Ci sono migliaia di piccole cose che, se
illuminate, possono cambiarci un giorno e, infine, tutta la vita.
Basta aprire la porta.
Nei sensi e poi oltre i sensi
c’è un mondo senza fine
e siamo noi: meravigliose trinità di
corpo, mente e cuore,
che camminano, a piedi nudi, nella
storia.
19. Acufenomenologia
dello spirito
Improvvisamente, durante la notte, un
rumore.
Un sobbalzo dal letto e comincia la
ricerca.
Niente.
La fonte del rumore è introvabile.
Nessun elettrodomestico.
Nessun camion.
Niente ronzii delle lampade.
Niente di niente. Niente di niente.
La fonte sono io.
Io.
Panico!
La pancia sottosopra, il respiro
affannato.
Rescue
remedy subito,
almeno per riprendere lucidità.
Esercizi respiratori.
Ok. Ce la posso fare.
Riprendo sonno a fatica, dopo molto
tempo.
Al risveglio quel suono è ancora lì.
Panico.
Rescue
remedy.
Meditazione.
Riprendo lucidità.
Ciò che mi ha spaventata dell’acufene (e
devo dire che per chiamarlo col suo nome ho faticato non poco!) è stato il suo
potere evocativo: mia madre ne soffre. Mia nonna ne soffre. L’affermazione è
stata subito: sono spacciata, è per sempre!
Quel per
sempre, quell’alone di ereditarietà delle cose da non ereditare, mi ha travolta.
E poi c’era il … … … s i l e n z i o … …
…
Dove era finito il mio amato silenzio,
il luogo della mia vita interiore, il perno del mio lavoro con la meditazione.
La perfezione – eh? – dove era finita la
MIA perfezione?
E’ stato un lavoro intenso, duro.
Sono stati mesi di ascolto profondo.
Sì, perché quello che subito dopo il
panico e le pippe mentali ho compreso è stato che avevo un’occasione per lasciar
emergere qualcosa sull’ascolto.
Era cominciata una nuova fase della mia
storia.
Ho scoperto nuovamente il silenzio.
Quello che si può accogliere anche in
mezzo al mercato.
Ho scoperto nuovamente la verità del
donarsi.
Che non ha a che fare con l’essere
perfetti, ma con l’ESSERE.
Ho scoperto nuovamente il potere del limite.
Quello che ti uccide se gli dai forza,
che ti salva se gli dai tempo.
E’ incominciata quella che mi piace
chiamare l’acufenomenologia dello
spirito.
Un percorso capace di mostrami il mio
corpo, le manifestazioni di dolore, fastidio, vulnerabilità, non più come un
nemico da sconfiggere, ma come un avversario per imparare qualcosa di me e
della mia storia d’amore con Dio, ovvero del percorso di unità che ricerco da
sempre.
Sono diventata più benevola con la mia
debolezza costitutiva.
La salute ha perso il suo valore di
idolo.
Perché è un fatto inconfutabile che sia
una meraviglia essere sani, non malati. Debellare ogni patologia possibile è un
dovere, ma… nel frattempo?
Nel frattempo comprendo sotto nuova luce
ogni passo, grazie alla mia debolezza che è una chiave che apre molte porte e spalanca
il portone della Forza Vera.
Sogno un mondo senza sofferenza.
E quel mondo ci aspetta.
Ma ora, qui, lascio che la sofferenza
stessa sia una possibilità.
Un dettaglio, un rumore nell’orecchio,
solo un dettaglio, importante certo, ma che non può togliere l’incanto di
esserci, qui ed ora, in questo tempo, in questo spazio.
Piccole cose che possono cambiare un
giorno ed infine anche la vita.
Spetta a noi decidere se in meglio.
Con coraggio.
Oltre
il piccolo muro del cortile, tra sassi, terra ed erbe variegate, c’è un filo d’erba
speciale.
E’
lì da diversi mesi. Resiste a tutto.
Prima
era un giovane virgulto fascinoso che ondeggiava nel suo verde limpido al
soffio del vento.
La
mattina è sempre difronte a me quando chiudo e riapro gli occhi nel mio tempo
di meditazione.
E’
un essere esilissimo, ma nonostante il cambiare delle stagioni, il freddo, la
neve, è ancora lì.
Ora
ha un’eleganza matura, quasi irriverente, perché nel suo grigio resta stabile e
flessibile ad ogni tempesta, sfidando gli alberi.
Il
freddo dell’inverno ha abbattuto il bel mandorlo, poco più in là, quello che in
abito da sposa faceva luce a tutto il prato.
Ma
lui no. Quell’esserino resiste ancora!
Lo
guardo divertita!
All’inizio
era insieme ad altri come lui, - non so cosa sia: ha la testina come una spiga
ma morbida – ma col tempo è rimasto l’unico.
Lo
capisco che fra un po' è tempo di rivoltare la terra e il piccolo filo d’erba
tornerà a fecondare l’universo, ma quanto è cara, qui, ora, questa presenza che
altri non vede se non io al mattino!
Quale
canto d’amore si eleva da quel filo d’erba!
Quante
lezioni…
La
mia vita, come quella di tutti, a volte è un frullatore.
Va
veloce, è carica di orari da rispettare, di appuntamenti da onorare, di cene da
preparare, di baci da sfornare e rabbia da trasformare.
Ma
ho visto il filo d’erba.
Lo
conosco.
E
questo è un buon segno.
La
vita mi parla, nel segreto, ancora e ancora, e non c’è caos che possa
trattenere questo magnifico cosmo di bellezza intatta.
Le
piccole cose fanno la differenza.
Lo
sapete, vero?
21. Sgranare silenzi
Molti anni fa
incontrai il silenzio e ne fui spiazzata.
Ero sola, in un ritiro di una settimana presso una donna fortemente carismatica che, avendo vissuto nel deserto, conservava i tratti di una forza interiore nuda, priva di orpelli e fronzoli.
Non fece che farmi sedere e tacere, in quel ritiro e negli altri che seguirono, per diverse volte al giorno.
Una sera mi chiese di uscire: 'Andiamo! Reciteremo un rosario respirato".
Non chiesi nulla. La seguii. Così come seguii il ritmo della sua preghiera e, di più, il ritmo del suo silenzio.
Ricordo un pomeriggio assolato nel cortile della casa eremo in cui ero ospite: mi sentivo come l'Adamo prima della creazione dell'altro da sé. Prima di sentirsi un essere in relazione.
Sola.
Ed ero tuttavia completamente centrata in quell'istante, in quel luogo. Ero presente.
Ma non bastava.
Il Dio che avevo cantato in tutti i modi e celebrato con l'esultanza della mia adolescenza, tutto ad un tratto si fece carne nel Silenzio.
Fu quando cominciai a sentire abitata quella solitudine, quel silenzio, quando mi accorsi di un Io-Tu dietro tutte le cose, che feci il salto che poi determinò le mie scelte future.
Rapita. Ecco, non direi di essermi sentita spaesata, fui rapita da quel modo di operare d'un Dio che credevo di conoscere e di cui invece avevo solo balbettato timidamente il Nome.
Ora cominciavo ad annusarlo.
Non so dire quale capriola fu (una delle tante che siamo chiamati a compiere nella vita!) ma da quella esperienza non sono più tornata indietro.
Ho, da allora, seduto e taciuto faccia a faccia con un Dio che affolla il Silenzio.
Nell'intricata trama delle nostre vite
certe scelte possono sembrare dettagli.
Quel ritiro, scelto tra centinaia di altre possibilità, era un dettaglio.
Ha cambiato la mia storia.
Quando scegliamo
noi ci apriamo a qualcosa che giungerà.
I dettagli delle nostre scelte hanno un peso su noi e il mondo intero.
22. E l'angelo e il serpente
(l'immagine è presa dal testo 'La mamma... è tante cose' di Mariana Ruiz Johnson)
21. Sgranare silenzi
Molti anni fa
incontrai il silenzio e ne fui spiazzata.
Ero sola, in un ritiro di una settimana presso una donna fortemente carismatica che, avendo vissuto nel deserto, conservava i tratti di una forza interiore nuda, priva di orpelli e fronzoli.
Non fece che farmi sedere e tacere, in quel ritiro e negli altri che seguirono, per diverse volte al giorno.
Una sera mi chiese di uscire: 'Andiamo! Reciteremo un rosario respirato".
Non chiesi nulla. La seguii. Così come seguii il ritmo della sua preghiera e, di più, il ritmo del suo silenzio.
Ricordo un pomeriggio assolato nel cortile della casa eremo in cui ero ospite: mi sentivo come l'Adamo prima della creazione dell'altro da sé. Prima di sentirsi un essere in relazione.
Sola.
Ed ero tuttavia completamente centrata in quell'istante, in quel luogo. Ero presente.
Ma non bastava.
Il Dio che avevo cantato in tutti i modi e celebrato con l'esultanza della mia adolescenza, tutto ad un tratto si fece carne nel Silenzio.
Fu quando cominciai a sentire abitata quella solitudine, quel silenzio, quando mi accorsi di un Io-Tu dietro tutte le cose, che feci il salto che poi determinò le mie scelte future.
Rapita. Ecco, non direi di essermi sentita spaesata, fui rapita da quel modo di operare d'un Dio che credevo di conoscere e di cui invece avevo solo balbettato timidamente il Nome.
Ora cominciavo ad annusarlo.
Non so dire quale capriola fu (una delle tante che siamo chiamati a compiere nella vita!) ma da quella esperienza non sono più tornata indietro.
Ho, da allora, seduto e taciuto faccia a faccia con un Dio che affolla il Silenzio.
Nell'intricata trama delle nostre vite
certe scelte possono sembrare dettagli.
Quel ritiro, scelto tra centinaia di altre possibilità, era un dettaglio.
Ha cambiato la mia storia.
Quando scegliamo
noi ci apriamo a qualcosa che giungerà.
I dettagli delle nostre scelte hanno un peso su noi e il mondo intero.
22. E l'angelo e il serpente
Sono nel solito posto, sotto l’albero.
Arriva l’angelo.
Non capisco bene la sua
figura ma le ali sono grandissime e bianche e morbide.
Mi dà da mangiare polvere d’oro e ce l’ho
nel cuore e nella pancia.
Poi soffia sul mio capo e pone, lì pure, polvere d’oro.
Tutto per tre volte.
Siede accanto e guardiamo innanzi.
Con la sua enorme ala destra mi
abbraccia.
Poi parla – senza muovere le labbra – e dice
che sono protetta.
- Sì, ma i miei lo sono? – parlo
senza muovere le labbra, e dall'altra ala eccoli… uno, due, tre.
Ci sono, sono
protetti.
- Ma, aggiunge, tu sii l’angelo di te
stessa -.
E fa come per volare via ed io, penso, andrà in cielo?
No, si muove verso l’albero.
Ed io, penso, diventerà albero?
Diviene tortora.
Apro gli occhi.
Una tortora canta sull'albero difronte.
Il serpente, anche lui è una visita, mi
ingoia completamente.
Ed io fuoriesco dalla parte opposta,
vincente su me stessa.
Poi, fuori dalla porta un serpente attende
di morire.
La nostra vita è costellata di immagini
che non sappiamo il più delle volte vedere. E quindi nemmeno collegare tra loro. Tra l'oro.
Sono messaggeri confortanti, strambi, a
volte molto, molto scomodi. Altre crudeli.
Ognuno ha un messaggio e noi, grazie a
loro, ci muoviamo verso il compimento di ciò che siamo veramente.
Abbiamo disabituato la mente e il cuore
a vagare in questi mondi e i sensi si sono così incrostati!
Ma se tornassimo a vedere davvero
quale universo è racchiuso nel filo d’erba,
nel papavero che oggi mio figlio ha
difeso con le lacrime perché non fosse falciato con l’erba del prato.
Se vedessimo davvero il filo dorato che tesse
la trama al Giorno e feconda le notti.
Se ci parlassimo davvero - senza parole
- ascoltando invece di cercare la risposta giusta o il consenso o la mia idea
dell’altro nell'altro.
Saremmo angeli di noi stessi, saremmo
astuti conoscitori della Via che ci conduce per ogni sentiero.
Saremmo oltre il bene e il male.
Semplicemente nella vita
che fluisce
dal
Grembo di Dio ad ogni respiro.
Ho imparato, un tempo, a coltivare l’immaginario
profondo, a lasciarlo emergere.
Poi ho abitato una cella austera in cui
non c’era spazio per nessuna immagine.
Due tempi bellissimi, degni d’essere,
entrambi.
Terzo tempo, eccolo, è questo, in cui
accolgo senza giudizio il Maestro dentro le piccole cose. Tutte.
Ci provo ad essere l’angelo e il
serpente di me stessa.
Quanti tempi avrà la mia storia?
Chi può dirlo!
Intanto sono qui.
- ‘Stai diventando ogni giorno di
più ciò che sei’…
una delle frasi più belle che abbia ricevuto in dono in tutta la mia vita -.
E cammino, un passo alla volta, un
respiro alla volta.
Dentro ciò che sono sempre stata.
Verso ciò che sono da sempre.
Questo andare
cambia questo minuto.
Lo rende un per sempre.
Questo
può cambiare tutta la vita.
23. Madre, come Dio
Non
attendevo di diventare madre.
Almeno non
consciamente.
Avevo
altri progetti, altri viaggi da compiere.
Eppure,
leggendo i miei vecchi, voluminosi diari, ho ritrovato lettere ai miei figli.
Dobbiamo
stare attenti alle parole che pronunciamo, specie quelle articolate con
emozione, con vividezza di immagini interiori. Creano.
Ed eccomi,
ora, mamma.
Chiamata
con un nome nuovo che è una consacrazione per sempre.
In tutto c’è
un prima e dopo.
Così nella
maternità.
Nel corpo,
nella mente, nel cuore.
Una
trasformazione intensa è avvenuta, un passaggio più prossimo alla legge dei
semi che delle potature.
Non si è
trattato di togliere cose tipo autonomia, libertà, spensieratezza e altri
luoghi comuni, queste sono ai margini dell’evento maternità come satelliti di
altro… ecco, questo altro che mi ha trasformata è germinativo.
In grembo
altre vite hanno preso forma.
Trasformando
il mio corpo fino a renderlo capace di portarne un altro, azzerando o
accelerando i pensieri, scombussolando le emozioni nel piano più manifesto, la
maternità ha seminato una nuova forma d’essere nella mia preesistente forma
d’essere.
La vita
loro è diventata una forma della mia stessa vita.
Ho le loro
cellule in corpo e loro le mie.
Ci siamo
reciprocamente passati i pensieri, le emozioni, i sentimenti, le immagini, i
suoni, gli odori…
Francesco
mi iniettava dal di dentro dosi di riflessioni magnifiche sulla natura, sul
mondo, su Dio, alimentava la sete di conoscenza e il desiderio di sperimentare.
Irene mi regalava
ondate profumate di femminilità, rossetti rossi e fascino, una potenza mai
sperimentata prima di allora, una forza femminile rivoluzionaria.
Devo me
stessa a ciò che loro hanno permesso germogliasse in me.
- Glielo
dovrò lasciar fare per sempre, sono madre senza scampo! -.
Ogni
gravidanza è stato un procedere verso nuovi campi di coscienza.
Ogni
relazione con loro. Dal primo istante.
Anche lui/lei
- che ha un nome solo nostro - che tra Francesco e Irene, non è stato/a con me
che pochissimi giorni, ha lasciato una consapevolezza femminile
intensissima, un’energia poderosa.
I mostri,
le ombre, sono emerse con tale vividezza.
E che
botte, e che rivelazioni!
Ecco, la
maternità è una terra feconda di rivelazioni.
Mi ha
fatto sperimentare, per la prima volta davvero, la fragilità, ad esempio.
Prima di
loro non sapevo cosa fosse la paura, quella vera che ti attanaglia le budella e
ti lascia mezzo morto per terra.
Niente è
paragonabile a quello che loro hanno mosso in me.
Niente.
Niente ha
richiesto fede come il metterli al mondo. Come il darli a questo mondo, sempre,
ogni giorno.
Perché
avere un figlio ti espone costantemente.
Non c’è
scampo, l’ho già detto, ed è per sempre.
Non c’è un
giorno in cui potrai fregartene e fare come se non esistessero, quindi o vivi
l’abbandono in Dio come leit motif della tua vita o la preoccupazione ti
distruggerà. Ti annienterà la gioia.
Sono
brutale?
E’ così.
Per questo
loro sono i miei maestri.
Niente mi
ha rigirata come un guanto come tessere la relazione con i miei figli.
Mi
ricreano. Costantemente.
E, se
avete intenzione di diventare genitori, allenatevi al cambiamento, altrimenti
patirete di insoddisfazione, spaesamenti improvvisi, mal di mare: è una nave
sempre in moto la genitorialità.
E’ una
giostra che ora ti fa ridere a piena pancia, ora ti fa svuotare la pancia di
tutto quello che può esserci mai stato dentro per il terrore.
Si deve
essere coraggiosi per essere genitori.
Io non lo
sono mai stata.
Eppure…
E poi si
deve essere forti fisicamente.
Io non ho
mai avuto granché resistenza.
Eppure…
Insomma,
non ci vogliono doti particolari per essere madri e padri.
Una sola,
mi pare, ad oggi: restare fedeli alla legge dei semi.
Tutto
germoglia. Tutto cresce. Tutto sfiorisce. Tutto germoglia.
E
ripetere.
Il mantra
più tosto possibile.
E di
piccole rivelazioni in piccole rivelazioni accade anche di conoscere Dio.
Sì, Dio.
Quello che
magari, come nel mio caso, hai riconosciuto un giorno, da ragazza, e ne hai
anche voluto studiare i tratti tanto t’era piaciuto.
Dio che
non può che essere madre.
Le Scritture
Sacre te lo avevano detto che questo Dio si commuove nell'utero per l’umanità.
Ora lo
sai.
E come
potrebbe essere diversamente?
Questo Dio
che se ne stava comodamente amante e amato, in un andirivieni d’amore senza
limitazione alcuna, fa spazio ad un altro da sé e crea l’umanità.
Ed è
fottuto per sempre.
Perché da
quel momento non c’è un’ora in cui possa dire di fregarserne: Dio, che come me,
è madre senza scampo.
E allora
cambia tutto.
Se è madre
c’è da fidarsi.
Non
dimentica.
Non s’addormenta
se il figlio non sta bene.
Non se ne
frega ma ha cura.
Nelle
piccole cose d’ogni giorno.
Come me
che decoro la tavola con fiori. Solo che Lui di fiori ha fatto traboccare i
prati.
Come me
che preparo la merenda più salutare possibile. Solo che Lui ci ha dato tutto ciò
che cresce sul suolo.
Come me
che consolo un ginocchio sbucciato, metto le mani su un pancino dolente,
accarezzo una lacrima sulla guanciotta e cerco di spalancare sorrisi anche in
mezzo alla pioggia.
Solo che
Lui… a meno potere di me.
Sì, perché
i miei bambini sono ancora piccoli e si lasciano aiutare.
Lui invece
ha figli grandi che non escono mai dall'adolescenza e so cazzi.
Non
invidio le Sue notti insonni.
Perché Dio
non è l’Imperturbabile, se è madre.
E’ il
Vulnerabile per scelta.
La maternità
è terra rivelativa.
Anche Dio
in essa si è scoperto cambiato.
Ogni
giorno, in ogni piccola cosa.
Come me,
che lo vedo Madre ogni giorno, nelle piccole cose.
Dio
Madre,
che
sei come in alto così in basso,
sia
il Tuo Nome santo in ogni mio gesto.
Venga
la tua tavola imbandita per tutti
attraverso
le nostre scelte,
si compia
il Tuo progetto magnifico di sinergia fra tutta l’umanità, fra tutti i tuoi figli,
fra
tutte le creature visibili e invisibili.
Preparaci
da mangiare per il corpo, per la mente e per il cuore
e perdonaci
se non siamo compassionevoli come Te con gli altri fratelli.
Se
non sappiamo più nutrirci,
se
non sappiamo più amarci come fratelli,
non
smettere di invitarci a Casa e
liberaci
dall'orgoglio che non ci fa più chiedere la Tua carezza.
Amen.
(l'immagine è presa dal testo 'La mamma... è tante cose' di Mariana Ruiz Johnson)
24. - Come stai? -
- Come una giraffa! -
Quando qualcuno ci chiede ‘come stai?’
muove in noi tanti strati.
Quello dell’apparenza, del dovere, dell’essere.
Se siamo vivi può essere una domanda
evolutiva ogni volta.
Cosa dico? Vivi? Domanda evolutiva?
Essere vivi non è
affatto scontato.
Certo le funzioni biologiche sono
salvaguardate, ma è tutto qui?
Sapete che per il 70-80% della nostra
giornata noi viviamo di automatismi? E questi sono legati alla nostra base
biologica più antica, il cosiddetto cervello rettile, la struttura umana più
preistorica che ci sia, quella del lotta o fuggi. Per carità, fondamentale
perché mantiene deste le funzioni primordiali (cibarsi, riprodursi) ma… è tutto
qui?
Questo primo livello animale, che ritroviamo
anche nella nostra storia evolutiva personale e che simbolicamente è situato
nella parte bassa del nostro corpo (bassa non sta per aggettivo squalificativo!) è solo uno stadio dell’essere.
Uno scalino.
C’è poi un livello intermedio che è quello
dell’essere psichico. Biologicamente vi fa risonanza il cervello limbico, centralina
che gestisce la vita emotiva, simbolicamente la sua sede è nel tronco nel
nostro corpo.
Questo stadio è un po' come l’adolescenza
della nostra vita: un ribollire continuo di emozioni altalenanti che ci fanno
indossare numerose maschere. Fino a quando non decidiamo chi comanda.
Sì, perché questi livelli dell’essere non
sono che contenitori e vivono di ciò che io scelgo di metterci dentro.
Interessante!
Allora meno vittimismo mi farebbe meno
vittima? Allora un linguaggio limpido, un pensiero limpido potrebbe rischiarare
la vita di tutti i giorni?
Ed è qui che entra in gioco il nostro livello
più alto (simbolicamente rappresentato dal capo), il livello spirituale che
biologicamente ha come sede la parte più giovane del nostro cervello, la neocorteccia.
Qui abita l’immaginazione, la riflessione, la
capacità evolutiva dell’essere, la sua possibilità di compiersi, di livello in
livello, fino a diventare… veramente uomo.
E come si fa ad andare oltre l’istinto, oltre
l’emotività?
Anzitutto oltre non vuol dire a
prescindere. Il livello si supera solo se è pienamente giocato.
Non c’è evoluzione che salti gli stadi dell’essere:
quella è repressione.
Giocare le maschere che ci portiamo dentro, e
parliamo di millenni evolutivi, di genealogie di automatismi, esige una cosa
fondamentale: consapevolezza.
Devo sapere che sto giocando il ruolo di
bambino capriccioso mentre lo agisco, devo sapere che questo attacco di ansia è
una memoria emotiva nel corpo che si ripresenta con uno stimolo magari visivo o
tattile ecc., devo sapere che posso andare oltre (dal di dentro) questo scenario.
E posso. Sempre.
Tuttavia non senza allenamento, costante e ripetuto.
Il richiamo costante alla consapevolezza non
è che questo chiedersi ‘come stai?’.
Mentre penso, agisco, parlo, da quale
livello di me lo faccio?
Così la vita non è più un viaggio di cose
scontate ma un’avventura momento per momento, perché mille volti mi abitano e
devo conoscerli per capire qualcosa di me se voglio andare incontro agli altri.
L’allenamento alla consapevolezza ha la
capacità di cambiate tutto, e quando dico tutto intendo davvero tutto, dal DNA
ai pensieri senza soluzione di continuità.
E questo non lo dico io ma è una sapienza
antica che oggi scienze come l’epigenetica, per esempio, confermano.
E la giraffa?
Sapete che inizialmente la giraffa aveva un
collo corto?
Poi allenandosi a prendere le foglie più
alte, le migliori!, nel corso della sua storia evolutiva ha modificato
strutturalmente il suo corpo.
Tutto può cambiare se noi lo permettiamo.
Brucare sempre l’erba comoda intorno a noi,
ad un livello medio basso, può essere una possibilità.
Cibarsi in zone fuori dal nostro confort è anch’essa
una possibilità.
La nostra evoluzione, che non è che ad uno
stadio per noi stessi e per l’umanità intera, dipende da ciò che scegliamo.
E il bello è che la mia scelta non influenza
solo la mia vita ma quella di tutti, perché le scelte delle giraffe di un tempo
hanno strutturato le giraffe di oggi.
Chi siamo lo decidiamo noi. Attimo per
attimo.
Questa consapevolezza può cambiare una
giornata e, giorno dopo giorno, una vita e, vita dopo vita, un mondo.
25. Voglio svegliare l'aurora, ad ogni bivio del giorno
Un tempo sognavo di restare in meditazione per tutto il giorno, con piccole pause di attività e di essere così dimenticata in un angolo del mondo, per colorarlo, quel mondo, dal di dentro.
Non ho mai smesso quel desiderio.
Tuttavia, per ragioni che solo Dio conosce, sono stata gettata nel quotidiano più tipico, quello di una famiglia.
E ne sono grata.
C'è questo tempo d'oro del mattino, solo mio (solo Nostro!) che mi permette di essere leale alla mia storia durante tutto il giorno... con piccole o grandi pause di slealtà. Come tutti.
A volte vorrei durasse tutto il giorno.
Che la quiete del mattino fosse di 24 ore!
Perché questa natura solitaria mi è come una prima pelle.
Ma si svegliano i bambini e divento una mamma.
E quante cose diventiamo durante il giorno?
In tutte, però, brilla e fa capolino quell'essere del mattino che se ne sta lì, in un angolo remoto, ad accogliere l'infinito respiro dopo respiro.
La felicità credo sia questa memoria del nostro essere più autentico durante la sfilata dei mille volti che siamo.
Una luce di indicibile bellezza che, tra le cose da essere e fare, non si spegne.
Fino al mattino dopo.
È come una matrice (una madre!) che veglia con la luce accesa finché non siamo rientrati.
In noi stessi.
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